La dialettica fra i contrapposti principi del favor creditoris e del favor debitoris permea l’intero sistema civilistico delle obbligazioni, evidenziando lo strutturale conflitto di interessi che è insito nel rapporto obbligatorio.
Sembra opportuno citare, in tale prospettiva, l’istituto dell’anatocismo, il quale ha dato luogo a numerosi interventi normativi di riforma, riguardanti essenzialmente il settore bancario.
La disposizione di riferimento è l’art. 1283 cc, secondo cui, in mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, purchè trattasi di interessi dovuti per almeno sei mesi.
L’istituto opera come strumento di moltiplicazione del debito, implicando la produzione di interessi sugli interessi già scaduti, attraverso la tecnica della capitalizzazione.
Quest’ultima consiste nel qualificare gli interessi come sorte capitale, con la conseguenza che sulla somma capitalizzata sono calcolabili ulteriori interessi.
Il Codice consente il fenomeno anatocistico esclusivamente nelle tre ipotesi tassativamente indicate dall’art. 1283 cc, le quali sono pertanto qualificabili come disposizioni eccezionali e insuscettibili di estensione analogica, stante il divieto di cui all’art. 14 preleggi.
L’anatocismo giudiziale prevede che la produzione di interessi su interessi sia subordinata a una domanda giudiziale, relativa a interessi scaduti, nonchè dovuti per almeno sei mesi. La previsione del termine semestrale è espressione del principio del favor debitoris, atteso che l’arco temporale di riferimento incide direttamente sulla capitalizzazione, nel senso che più ampia è la forbice considerata, minore sarà l’effetto moltiplicativo del debito e viceversa.
L’anatocismo convenzionale fa dipendere la verificazione del fenomeno da una convenzione stipulata dalle parti del rapporto obbligatorio, posteriore alla scadenza degli interessi. Il legislatore italiano pertanto, in linea con gli altri ordinamenti europei, non consente il patto anatocistico preventivo, il quale inciderebbe negativamente sulla libertà negoziale del debitore, inducendolo ad accettare condizioni contrattuali sfavorevoli, pur di ottenere il finanziamento richiesto.
L’anatocismo usuale, infine, consente di derogare al divieto di cui all’art. 1283 cc in presenza di usi contrari, purchè trattasi di usi normativi e non di mere prassi negoziali.
Con riguardo a tale ultimo aspetto, è emerso il problema della qualificazione della prassi, invalsa fra gli istituti bancari, di capitalizzare trimestralmente gli interessi passivi dovuti dai clienti nei contratti di conto corrente bancario, a fronte di una capitalizzazione annuale dei saldi attivi, secondo quanto previsto dalle norme bancarie uniformi del 1951.
La giurisprudenza tendeva a legittimare tale prassi, sulla base dell’asserita esistenza di un uso normativo anteriore al Codice del 1942 e recepito dalle citate disposizioni bancarie, idoneo a integrare la deroga prevista dall’art. 1283 cc.
La situazione è mutata in seguito a due importanti sentenze della Cassazione, le nn. 2374 e 3096 del 1999, le quali hanno ribaltato la precedente impostazione.
In particolare, la Corte di legittimità ha evidenziato la carenza dei requisiti strutturali propri degli usi normativi nelle norme bancarie uniformi del 1951 e, segnatamente, dell’elemento soggettivo dell’opinio iuris ac necessitatis, ossia della consapevolezza della doverosità giuridica di un comportamento generalizzato e ripetuto in maniera costante fra i consociati.
Ne deriva che la citata prassi bancaria è qualificabile come uso negoziale e non normativo, in quanto tale inidoneo a derogare al divieto di anatocismo, con conseguente nullità virtuale delle clausole di interessi a capitalizzazione trimestrale per contrarietà a una norma imperativa.
La posizione della Cassazione, che è tornata in seguito ad occuparsi del tema, anche a Sezioni unite, è rimasta sostanzialmente immutata, precisandosi ulteriormente che non può essersi formato un uso normativo in epoca successiva al 1951, per effetto dell’avvallo della giurisprudenza alla prassi invalsa fra gli istituti di credito, in quanto si tratterebbe di un uso contra legem, derivante dalla stratificazione di clausole nulle e improduttive di effetti.
Sulla questione, stante l’esigenza di colmare il vuoto di disciplina conseguente alla caducazione dell’efficacia degli usi bancari, è quindi intervenuto il legislatore, che nel corso di un triennio ha inciso profondamente sulla disciplina dettata dall’art. 120 TUB, modificandone il contenuto per ben tre volte.
In particolare, l’attuale art. 17 bis lett. b della L. n. 49/16 prevede che gli interessi debitori maturati, ivi compresi quelli relativi a finanziamenti a valere su carte di credito, non possono produrre interessi ulteriori, salvo quelli di mora, e sono calcolati esclusivamente sulla sorte capitale.
Tuttavia, il n. 2 della lett. b della disposizione citata specifica che il cliente può autorizzare, anche preventivamente, l’addebito degli interessi sul conto al momento in cui questi divengono esigibili; in questo caso la somma addebitata e’ considerata sorte capitale; l’autorizzazione e’ revocabile in ogni momento, purche’ prima che l’addebito abbia avuto luogo.
Dalla lettura della norma si evince il venir meno del fenomeno anatocistico nei rapporti bancari, salvo che per talune tipologie di interessi, ossia quelli moratori, e salvo che per talune tipologie di contratti, come le aperture di credito regolate in conto corrente e in conto di pagamento, allorchè è prevista l’autorizzazione del cliente all’addebito degli interessi sul conto al momento in cui divengono esigibili, nel qual caso la somma addebitata è considerata sorte capitale e può quindi dar luogo ad anatocismo.
Sembra opportuno evidenziare che, anche nei rapporti contrattuali anzidetti, la tutela del debitore è comunque garantita attraverso specifici strumenti, quali l’autorizzazione preventiva e la revocabilità della stessa in ogni momento.
Non può tuttavia tacersi che, dovendo la revoca intervenire prima che l’addebito abbia avuto luogo, la tutela approntata dal legislatore in favore del debitore potrebbe rivelarsi effimera, atteso che di regola il correntista ha contezza della capitalizzazione proprio nel momento in cui gli interessi sono addebitati sul conto, ossia quando il potere di recesso riconosciuto dalla norma non sarebbe più esercitabile.
Venendo all’ultimo profilo di interesse, ossia quello dell’individuazione del dies a quo di decorrenza della prescrizione dell’azione di ripetizione dell’indebito conseguito dalla banca a fronte di una clausola anatocistica nulla, si registra un importante intervento delle Sezioni unite, con sent. n. 24418/10.
Detta pronunzia, ponendo in risalto la natura meramente contabile del rapporto di conto corrente, ha concluso nel senso che il termine prescrizionale non corre dal momento delle singole annotazioni degli addebiti sul conto, bensì dalla chiusura dello stesso, la quale sola ingenera un effettivo spostamento patrimoniale in favore della banca.
Prima di tale momento, il correntista può esclusivamente agire per far dichiarare l’illegittimità dell’addebito e ottenerne consequenzialmente la rettifica.
Fanno eccezione a quanto detto i versamenti su conto “scoperto”, che secondo la Cassazione sono qualificabili come pagamenti e pertanto integrano il momento a far tempo dal quale il diritto può essere esercitato, ai sensi dell’art. 2935 cc.
Alla luce delle considerazioni esposte, può quindi concludersi nel senso dell’emersione, nella giurisprudenza e negli interventi normativi degli ultimi anni, di una generale tendenza di protezione della parte debole del rapporto, stante la necessità di colmare la strutturale asimmetria informativa connaturante i rapporti fra correntista e banca.
L’invalidità ab origine delle clausole di interessi a capitalizzazione trimestrale, la previsione di un termine prescrizionale più favorevole per la ripetizione delle relative somme e la limitazione normativa del fenomeno anatocistico a talune specifiche tipologie di interessi e contratti costituiscono infatti misure inequivocabilmente dirette alla realizzazione di un effetto equitativo, fermo restando che soltanto il tempo e la prassi riveleranno l’effettiva portata di detti interventi.
Fonte: Salva Juribus